È arrivato dalla Costa d’Avorio quando aveva 19 anni, scappando dalla guerra. Ora Abdul Ouatara affianca la società di calcio Alba Borgo Roma, a Verona, nell’allenamento dei ragazzini adolescenti, insegnando loro non solo il rispetto delle regole tecniche dello sport, ma anche quello tra compagni di squadra e verso gli avversari. Lo abbiamo intervistato nell’ambito della campagna nazionale “Odiare non è uno sport“, promossa a Verona da Progettomondo,
“Sono arrivato in Italia sei anni fa e all’inizio vivevo a Padova, dove giocavo a calcio”, racconta. “Da tre anni sono con l’Alba come assistente allenatore. Il cellulare durante gli allenamenti si spegne, ma fuori è un’altra storia”.
Abdul allena insieme a Massimo Giarola, responsabile del settore giovanile. La percezione dei due è che “non finisce lì”. Dopo le partite prendono talvolta il sopravvento messaggi pieni di disprezzo e intolleranza, ingiustificabili. Sempre. E ancor più quando la sfida è tra adolescenti di squadre rionali, di quartiere.
“Quando mi è capitato di essere insultato giocando ho sempre reagito cercando di dimostrare la mia bravura con il pallone”, fa presente Abdul. “Oggi però i giovani sono condizionati dai social, che li rendono ancora più consapevoli di quali siano i lati fragili da colpire in maniera voluta, tagliente, puntando direttamente a ferire la persona insultata. La connotazione razziale è il tasto più facile da “premere” perché i giocatori in campo, tendenzialmente, hanno strutture fisiche simili, da atleti. L’unica differenza su cui si può fare leva per offendere e fare male è evidenziare e indugiare sul colore della pelle o su un eventuale accento straniero”.
L’invidia e la competizione Abdul e Massimo la vedono spesso, non solo tra i ragazzini, ma soprattutto tra gli adulti, i genitori e i parenti che li seguono.
“Percepiamo una sorta di codice occulto, per cui un ragazzo italiano, secondo la sua famiglia, dovrebbe spesso avere più “diritti” dei coetanei che hanno origini straniere”, dicono. “Ci sono elementi subdoli, battute, che fanno percepire un pensiero discriminante, non positivo, che talvolta viene poi replicato dai figli. A un bambino o ragazzino italiano ogni gesto sopra le righe viene giustificato come una “monellata”. Per gli stranieri invece parte il processo alla cultura diversa, all’incapacità di adeguarsi al contesto, come se ogni atteggiamento infantile o adolescenziale dovesse fare i conti con il Paese di provenienza”.
Il contesto in cui si trova l’Alba è tra quelli a più alto tasso di migranti a Verona. La multiculturalità è viva, vivace, ma nell’estremo sud della città, dove si trova appunto il quartiere Borgo Roma, l’integrazione non è ancora così scontata.
“La mancanza dell’accettazione di chi è considerato “diverso” la si vede già nei bambini, ma le problematiche sorgono solitamente verso i 13 o i 14 anni. Non sempre gli insulti e le provocazioni sono a sfondo razziale, a volte sono frutto di un approccio semplicemente scorretto verso la pratica sportiva”, fa notare Giarola.
“Abbiamo vissuto l’episodio di un nostro giocatore minacciato a seguito di un partita persa dalla squadra avversaria. Lo abbiamo visto cupo e preoccupato e ci hai poi confidato di avere ricevuto messaggi intimidatori e minacce su Instagram, per il solo fatto che aveva portato a casa la vittoria”.
“Capisco che nell’eccitazione di una partita possa scappare qualche parolaccia, qualche parola urlata con una certa enfasi”, aggiunge Abdul. “Ma i ragazzini emulano i comportamenti e il linguaggio dei grandi e talvolta il contesto dilettantistico porta a vivere situazioni persino peggiori di quelle che si vedono negli stadi, sia verso gli arbitri, che nei confronti degli avversari in campo. E i giocatori, per quanto minorenni, rispondono alle provocazioni se non sono allenati a non farlo”.